Per un giorno e una notte Agata rimase chiusa in una cella del carcere, all’interno del palazzo pretorio: diventata in seguito un luogo di culto, era una cameretta interrata, buia e umida. Il soffitto era alto e soltanto una finestrella irraggiungibile lasciava filtrare un raggio di luce attraverso una spessa grata di ferro. Non le fu dato né cibo, né acqua e una pesante catena le stringeva le caviglie. Ma la giovane Agata non disperò mai e continuò a pregare ancora più intensamente lo Sposo celeste. La mattina successiva fu condotta per la seconda volta davanti al proconsole. “ Che pensi di fare per la tua salvezza? ”, le domandò Quinziano. “ La mia salvezza è Cristo ”, rispose decisa Agata. Soltanto a quel punto Quinziano si rese conto che qualunque tentativo di persuasione era destinato al fallimento e, con uno scatto d’ira, ordinò di sottoporla a orrende torture. Ad Agata furono stirate le membra, fu percossa con le verghe, lacerata col pettine di ferro, le furono squarciati i fianchi con lamine arroventate. Ogni tormento, invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle nuovo vigore. Allora Quinziano si accanì ulteriormente contro la giovinetta e ordinò agli aguzzini che le amputassero le mammelle. “ Non ti vergogni, gli disse Agata, “ di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento, succhiando al seno di tua madre? ”. L’ordine di Quinziano era un gesto di rabbia e di vendetta: ciò che non aveva potuto ottenere, ora voleva distruggere. Voleva vederla soffrire per il dolore del martirio e per il pudore violato. Voleva umiliarla nella sua dignità di donna, ma nessun segno di turbamento segnò il volto né le parole di Agata: “ Tu strazi il mio corpo ”, disse, “ ma la mia anima rimane intatta ”.