Sin dal 264 a.C., anno in cui con la prima guerra punica Roma sottrasse l’isola ai Cartaginesi, in Sicilia era stata imposta la religione pagana dei Romani, col suo carico di divinità popolane e goderecce, esempi di corruzione e di dissolutezza nei costumi.
Quando la comunità cristiana iniziò a essere abbastanza ampia, intorno al 40 d.C., si abbatterono su di essa le prime persecuzioni. Inizialmente con Nerone, a metà del primo secolo, ebbero carattere soltanto occasionale.
Poi, nel corso del II secolo, fu data loro una base giuridica mediante una legge che vietava il culto cristiano. Di questi primi secoli la Chiesa ricorda numerosi martiri che, con il loro coraggio e la determinazione nell’accettare la morte per Cristo, contribuirono ad accelerare la diffusione del cristianesimo.
All’inizio del III secolo, l’imperatore Settimio Severo emanò un editto di persecuzione. Egli stabilì che i cristiani dovessero essere prima denunciati alle autorità e poi invitati a rinnegare pubblicamente la loro fede. Se accettavano di tornare alla religione pagana avevano diritto al libellurn, una sorta di certificato di conformità religiosa, ma se si rifiutavano di sacrificare agli dei, venivano prima torturati e poi uccisi.
Con questo sistema, freddo e calcolatore, l’imperatore cercava di fare apostati, cioè persone che abbandonavano la fede cristiana, e non martiri, che erano considerati più pericolosi dei cristiani vivi.
Poi, di fronte al diffondersi del cristianesimo e temendo che l’aumento dei fedeli potesse minacciare la stabilità dell’impero, nel 249 l’imperatore Decio ordinò una repressione ancora più radicale: tutti i cristiani, denunciati o no, erano ricercati d’ufficio, rintracciati, torturati e infine uccisi.