La Chiesa di S. Giuliano è inserita in un contesto urbano di grande suggestione; si affaccia, infatti, sulla via Crociferi che può essere considerata, senza alcun dubbio, la "perla" della ricostruzione settecentesca di Catania. Proprio di fronte alla chiesa è il grande complesso dei Gesuiti costituito dalla chiesa di S. Francesco Borgia e dal grande Collegio (oggi sede dell’Istituto d’Arte) che si estende, molto in profondità, con i quattro cortili e gli ambienti per i religiosi. Secondo alcuni studiosi la chiesa di S. Giuliano può essere attribuita al Vaccarini che l’avrebbe realizzata tra il 1739 e il 1751. Il prospetto, concavo al centro, è movimentato da una loggia di coronamento che si dispone all’altezza del secondo ordine della facciata. Sul frontone spezzato, che sovrasta il portale d’ingresso, poggiano due figure femminili allegoriche. Il breve sagrato, chiuso da una cancellata, è decorato da una tessitura di sassi bianchi e neri. In alto, la cupola è avvolta da un loggiato poligonale che ricorda quello della chiesa di S. Chiara. Da questo loggiato le religiose, spesso provenienti da famiglie della nobiltà catanese, potevano seguire la processione della festa di S. Agata che, la notte del giorno 5, saliva lungo la via Sangiuliano per svoltare, poi, in via Crociferi. L’interno, avvolto da una suggestiva luce dorata, è un grande spazio ottagonale in cui trovano posto le ampie cappelle e gli altari. Le opere d’arte più importanti sono: l’altare maggiore, un Crocefisso del XIV secolo, la Madonna delle Grazie con S. Giuseppe e S. Benedetto di O. Sozzi e un S. Antonio Abate del Seicento. Accanto alla chiesa è il convento di S. Giuliano, oggi sede della Camera del Lavoro.


Vita delle monache catanesi

"Prima del terremoto del 1693 i monasteri in Catania erano quattordici, dopo, il vescovo Riggio, li ridusse a sei: sotto la regola di S. Benedetto quelli titolati a S. Placido, S. Giuliano, SS. Trinità, S. Benedetto e S. Agata, il sesto sotto la regola serafica di S. Francesco si titolava a S. Chiara. Quasi tutte le monache dei sei monasteri appartenevano al patriziato catanese o alla ricca borghesia. Era, allora, abitudine d’ogni famiglia nobile affidare alle religiose l’educazione delle proprie figliuole, le quali rimanevano, poi, nel monastero in cui prendevano il velo, sacrificandosi a favore del primogenito o, in mancanza di questo, della sorella maggiore, unica erede delle ricchezze della famiglia. Dopo un anno di noviziato la figliuola andava sposa a Cristo. Spogliata dall’abito del noviziato, indossato quello monacale, si prostrava per terra in mezzo all’oratorio e veniva coperta, come una morta, da una coltre nera; ai piedi erano due candelabri accesi. La cerimonia si svolgeva fra grande commozione, mentre le campane suonavano a morto. Quando la professa si levava, il sacrificio era compiuto. Ai parenti e agli invitati era, quindi, riservato uno splendido "trattamento offerto dalla badessa".(Guglielmo Policastro, Catania nel Settecento, 1950).